Colle dell’Agnello e Col du Parpaillon in bicicletta.
Il sole alle mie spalle è già alto quando muovo le prime pedalate nella pianura cuneese, laggiù tra le vette di confine, da qualche parte c’è una piccola strada, lunga ed irta che porta ad un valico di frontiera piuttosto giovane, ma che ha già un fascino particolare data l’altitudine e le difficoltà.
Il colle dell’Agnello.
Il colle dell’Agnello per le carte italiane si trova a 2748 metri sul livello del mare, i francesi stranamente lo sminuiscono e gliene attribuiscono “solo” 2744 e lo chiamano col Agnel. Non avendone l’esclusiva, probabilmente, non hanno un gran interesse nel esaltare la grandeur nazionale. Nonostante l’incertezza ipsografica si tratta pur sempre del terzo valico naturale più alto d’Europa (escludendo il Col de Bonette) dopo Passo dello Stelvio e col d’Iseran.
Il fascino in più del valico italo francese viene da quel senso di avventura pioneristica che solitamente offrono le strade con una carreggiata stretta, un’antropizzazione quasi nulla e il silenzio interrotto solo dallo scorrere della catena.
La strada comincia a variare la sua pendenza all’imbocco della val Varaita. Le montagne non costituiscono più un orizzonte lontano, ma l’ambiente circostante. Sampeyre, Casteldelfino ed infine Pontechianale, sino ad ora la fatica è stata costante e facilmente sopportata. Alcune frazioncine hanno offerto scorci suggestivi e rurali, il lago di Castello regala un attimo di respiro, si allargano i polmoni e anche la vista della valle che, fino ad ora, appariva quasi oppressiva.
Il cambio di paesaggio si accompagna alla necessità di alleggerire i rapporti e rimodulare fatiche e pedalate. La strada ora si inerpica su un pendio erboso, con alcuni tornanti ben graditi e pendenze sempre in doppia cifra. Il Monviso è alla nostra destra, qualche vallone conserva ancora le ultime nevi invernali mentre la giornata infrasettimanale ha lasciato a casa il disturbo dei motori a scoppio.
Il cippo di confine sulla vetta è imponente quanto anacronistico, probabilmente ha vissuto tutte le vicende di una frontiera che nei secoli scorsi non sempre è stata un pacifico punto di comunicazione. Anche su queste cime fu iniziata la costruzione del vallo alpino, la linea di fortificazioni che doveva difendere l’italico suolo da un attacco del nemico d’oltralpe agli inizi della seconda guerra mondiale.
Riavvolgendo il nastro della storia di molti più anni, da questa posizione elevata vedrei i possedimenti dello stesso regno e con la stessa lingua. Il Delfinato nel XII secolo infatti, prima di essere donato al regno di Francia, occupava insolitamente territori spezzati a metà dalle alpi Cozie. La val Varaita appena percorsa, ma anche la val Chisone e la val di Susa hanno ricevuto in eredità da questa esperienza il bilinguismo italo francofono che fu anche del regno di Savoia.
Il Col du Parpaillon.
Discendo ora in terra straniera, attraversando il parco naturale del Queyras. Dopo aver trovato riposo a Guillestre riprendo mattiniero e corroborato da i primi raggi di sole verso lo sterrato del Col du Parpaillon. L’antica pista militare costruita attorno al 1700 giunge fino ai 2783 metri sul livello del mare, ora però è possibile oltrepassare il colle e scendere nell’Ubaye eludendo gli ultimi tratti ripidi e oramai desueti.
Abbandonata la strada di fondovalle, un susseguirsi di piccoli centri, interrotti da distese incolte e i primi pascoli preannunciano il ritorno in quota, ugualmente importante diversamente affascinante. Il borgo di La Chalp si snoda attraverso alcune curve ripide e case di pietra, giardini ordinati e qualche villeggiante. Al termine del villaggio il cemento armato trova l’ultimo suo modesto sfogo in una costruzione con la scritta “ski de fond”: presagio felice di pendenze prossime allo zero.
Probabilmente non si poté leggere la stessa felicità sugli occhi dei soldati spagnoli che rifugiatisi da queste parti prima della secondo conflitto mondiale furono “invitati” a partecipare ai lavori di ammodernamento della strada. Proprio nei pressi de la “cabane des espagnoles” il fondo stradale si converte beffardamente dal bitume al più romantico sterrato.
Un cartello in legno con una scritta gialla indica la distanza alla fine della salita, il bosco termina e la vista si allarga su distese verdi incise dalla striscia di terra e sassi che dovrò percorrere, il cielo è incredibilmente terso, i colori appaiono impossibili da salvare in uno scatto fotografico, sono quegli attimi che vivi, ricordi, ma fatichi a raccontare e ancor di più a riprodurre.
La vegetazione prosegue il suo declino, vittima delle circostanze, anche l’erba lascia lo spazio alle pietre e il paesaggio assume contorni sempre più lunari. Un paio di tornanti interminabili, una curva che la fatica allunga di qualche momento, la pista che improvvisamente si allarga fino a diventare un piazzale e finalmente la fine dei dieci chilometri che il cartello di legno aveva preannunciato.
Il colle si trova centocinquanta metri sopra l’entrata del Tunnel, le buche al suo interno sono in realtà pozzanghere che vanno attraversate con cautela, la luce sul casco illumina a sufficienza le pareti scavate nella roccia alla fine del XIX secolo.
Opere del genere a queste altezze e in zone così remote assumono un fascino difficile da comprendere. Si tratta di una galleria particolare, con la scomodità dello sterrato e la pericolosità di essere buia, ed è lunga ben cinquecento metri. Forse la curiosità di vedere l’altro lato, fa aumentare un po’ la velocità, ma in realtà una volta giunto fin quassù non vorresti uscire mai uscire dal tunnel.
Fastidiosa e stressante, la discesa trova la giusta definizione con questi aggettivi. Lunga, ripida, abbondante in curve e sassi di misure abnormi per un fondo stradale degno di questo nome. La prima parte con diversi tornanti e un paio di punti esposti, la seconda con rettilinei quasi pianeggianti e le prime costruzioni. Per ritrovare delle auto dovrò aspettare il ritorno sulla via principale a La Condamine-Châtelard, dove dopo la svolta a sinistra e pochi chilometri inizio l’ultima fatica.
Non sapremo mai se Annibale abbia veramente passato le alpi da questa salita, come qualche studioso sostiene. Se cosi fosse lo avrebbe fatto senza l’ansia dell’ultimo treno da non perdere a Cuneo. Godendosi completamente l’ambiente circostante. Non si sarà interrogato sul nome giusto da dare al passo (Col de Larche, Maddalena o Argentiere?), ma una volta giunto alla cima avrà dato ristoro ai suoi elefanti alle acque del lago. Scendendo lentamente nella val di Stura, forse sarà stato tra i primi a trarre giovamento dalle fonti termali di Vinadio, mentre del forte albertino di Vinadio ovviamente non vi era ancora alcuna traccia.
Quest’ultimo, lungo oltre un chilometro, è appoggiato al fondo valle in maniera da creare un barriera. La sua funzione difensiva è oramai obsoleta, la statale 21 scendendo a mezza costa lo taglia a metà, la parte che si dirige verso lo Stura versa in condizioni di abbandono, sul lato opposto, a monte, la struttura è invece parzialmente ristrutturata ed utilizzata per fini più nobili di quelli bellici.
Sui cartelli i numeri accanto alla scritta Cuneo decrescono, ma sempre più lentamente, la discesa è finita e la pianura richiede uno sforzo suppletivo. Bisogna attingere le ultime forze per raggiungere la stazione, salire velocemente sul treno e prendere la via di casa verso nord. Annibale, nel frattempo, continua la sua marcia in direzione opposta. Al posto della bici, un elefante.