Le prime luci dell’alba sbrecciano dall’oblò del traghetto, la pioggia offusca la vista della costa, le cime croate affiorano lontane attraverso nuvole basse. Sono passati due anni dalla mia prima esperienza in terra balcanica: una traversata diagonale dei territori della ex-Jugoslavia colpevolmente non preceduta da un’adeguata documentazione.
Balcani in bicicletta, la seconda.
Dopo pochi minuti di pedalata ho già Spalato alle spalle, rumori e umori marittimi sono presto sostituiti dalla silenzio operoso dell’entroterra e dagli umidi profumi di sottobosco. Anche la segnaletica verticale ha subito le sue novità da proporre, scrostati dall’usura i cartelli “pazi mine” fanno scorrere un brivido lungo la schiena e aprono i cassetti della memoria.
Sono ritornato in questa terra incompresa con qualche nozione in più: ho letto libri, visto film, ma soprattutto sono andato ad interpellare chi durante la guerra dei balcani si è prestato ad aiutare le popolazioni in difficoltà.
La mia traccia è stata disegnata quasi con cinismo proprio dagli eventi che hanno martoriato questo pezzo di Europa quasi non riconosciuto, compagno incompreso del destino del continente.
Madonna che casino
Medjugorie appare quindi come un paradosso, una felice enclave che durante la guerra è rimasta chiusa nella sua bolla. Qui non si è combattuto, anche se qualcuno la accusa di aver custodito le armi che hanno straziato le anime che vivevano poco più a est sulle rive della Neretva.
Anche se l’apparizione della madonna è solo ufficiosa, il corollario di hotel, ristoranti e souvenir sono invece una presenza costante, fastidiosa e abbondantemente redditizia. Dopo un paio di chilometri di questo viale Ceccarini all’acqua santa, si trova il vecchio cartello che indicava la vecchia Medjugorie che in realtà è solo una frazione. Tutto quello che abbiamo visto sino ad ora è merito del miracolo (economico).
Stupisce il fatto, e quasi non ce ne si rende conto, che ho già varcato il confine Bosniaco: uno dei principali centri del marianesimo cattolico si trova in un paese a maggioranza mussulmana. Altra anomalia la si scopre al primo acquisto: la moneta più usata è l’euro nonostante si trovi due frontiere più indietro, il Marco bosniaco viene convenientemente snobbato.
Vigneti, pecore, tornanti e di nuovo vigneti. Ora seguo il corso della Neretva, in leggera salita, poche auto e qualche bus. Le pareti di alcune case sono decorate da fori di proiettile, altre non seguono più la moda di utilizzare i serramenti a seguito di un bombardamento. La tregua mariana è terminata e mi rituffo negli eventi bellici.
Ponti che cadono.
Era il 9 novembre del 1995 quando le torture al ponte di Mostar terminarono. Il ponte crollò sotto i colpi dell’artiglieria croata e qualcuno riprese tutto con una telecamera. La caduta di un monumento storico e cittadino, la caduta di un simbolo del’unione tra le due sponde, quella croata e quella bosniaca. In realtà il bombardamento durò parecchio tempo, troppo tempo. Si dice che con pochi colpi il ponte sarebbe collassato rapidamente, così come Mostar stessa. Gli assedianti scelsero la lenta agonia, la vessazione psicologica, il patimento quotidiano da infliggere, come ulteriore ed inutile prova di malvagità.
Risalendo la valle un altro ponte si inserisce in questo puzzle storico geografico. Anche questo fu abbattuto, per ben due volte, ma poi nessuno ha sentito più il bisogno di ricostruirlo e ora giace in una stretta gola, mal segnalato, nei pressi di Jablanica. Racconta la gesta dei partigiani guidati da Josip Broz, l’intuizione bellica del giovane soldato jugoslavo di abbattere il ponte per isolare i nazisti, si rivelò azzeccata e determinante. I tedeschi non solo rallentarono la loro avanzata, ma furono costretti a retrocedere.
Nacque così il mito del maresciallo Tito, mito che si celebrò e autocelebrò, anche con un film sulle gesta eroiche appena descritte. Difficile sapere chi decise di abbattere nuovamente il ponte per rendere più reale la scena da girare, allo stesso modo appare complicato verificare la leggenda che riporta una versione grottesca.
Qualcuno insinua che sul set le cose non andarono nel modo giusto e, dopo aver minato il ponte, nessuno accese la cinepresa. L’esplosione fece il suo dovere, cemento e binari caddero nella valle, la polvere saliva, ma nessuna scena venne impressa sulla pellicola. Il ponte si è immolato una seconda volta, da eroe di guerra a controfigura cinematografica di se stesso. Si dice che la scena fu poi girata con un modellino, nessuno conosce la reazione del Maresciallo.
Prima di raggiungere la capitale Bosniaca faccio tappa a Konjic, città verde e vivace. Tanti giovani per la strada animano il pomeriggio, i parchi cittadini quasi si fondono con i boschi delle montagne attorno, la musica alta arriva fino alla mia camera d’albergo, mi affaccio e noto solo ora che lo skyline della città è ancora ferito.
Non è facile essere Sarajevo.
Sarajevo è sdraiata in una conca lunga circa dodici chilometri. Li devo percorrere tutti e anche questa volta non trovo percorsi alternativi alla superstrada. Lascio alle mi spalle il monte Igman che in meno di un decennio ha convertito le sue piste olimpiche in base militare cetnica. Salto l’uscita per l’aeroporto e imbocco quello che durante l’assedio era il viale dei cecchini, dove ora i Sarajevesi camminano certi di non essere inquadrati da un mirino.
Ripercorro le strade pedonali della Baščaršija, l’antico mercato turco con l’inconfondibile fontana, l’odore dei cevapi e il pavimento lastricato fino all’entrata della moschea.
Orientarsi nella capitale bosniaca non è difficile, molto più impegnativa è restare impassibili di fronte alla distesa di lapidi bianche che sono disposte sulle colline che percorro all’uscita dalla città. Durante la guerra i cimiteri si rivelarono tristemente sottodimensionati, cosi si cominciò a seppellire le vittime dove si trovava posto.
Visoko mi offre la possibilità di abbandonare le vicende belliche e alleggerire i pensieri con qualcosa che trova la sua naturale collocazione in luoghi ben più esotici. Quando su Google Maps ho letto della Piramide del Sole, ho pensato ad un errore di collocazione o più goliardicamente ad una pizzeria egiziana. Invece mi sbagliavo io. Abbandono la bicicletta all’inizio di un sentiero irto che conduce effettivamente alla base di una costruzione piramidale, completamente ricoperta di vegetazione.
Qualche squarcio o frana sulle pendici mostra quelli che agli archeologi impegnati con pale e pennelli risultano essere i massi usati per la costruzione, chissà quando e chissà da chi: il mistero non è ancora stato svelato. Io proseguo per la destinazione che mi sono posto per la serata, sicuramente meno misteriosa.
La cronaca di Travnik
Soggiornai a Travnik anche nel precedente viaggio da queste parti, direzioni diverse, ma lo stesso albergo e anche gli stessi incontri. Con una ricerca breve e allo stesso tempo baciata dalla fortuna rivedo e saluto con piacere Cico. Si pronuncia Zizo ed è il soprannome di Nemir, il collega ciclista locale che due anni fa mi fece compagnia nella serata trascorsa nella città che ha dato i natali a Ivo Andric.
Lo scrittore e politico che conseguì il Nobel per la letteratura con “Il ponte sulla Drina”, ambientò uno dei sui scritti proprio nella sua città. Più precisamente nella cittadella ottomana che sorge alta rispetto alla cittadina e dalla quale si ha una visione d’insieme della valle e delle montagne circostanti.
Le salite di Bosnia sono solitamente lunghe e dolci. Per raggiungere Livno ne devo superare ben due, fatica solitaria su strade contornate da foreste e rare costruzioni. Il traffico resta come sempre ridotto al minimo e l’aria che si respira sa ancora di umido e sottobosco.
Livno sfoggia ancora qualche monumento d’epoca comunista, diverse attività commerciali, ma non ha cicatrici nei muri. Mi trovo in Herzegovina la parte cristiana della Bosnia. Non ho scorto moschee, al contrario le qualche bandiera a scacchi bianchi e rossi sventola incurante del fatto che il confine croato sia distante ancora qualche chilometro.
Passo un bivio che indica la località dove nacque Gavrilo Princip, beffardamente lui che si erse a eroe del panslavismo ora vivrebbe in una zona di frontiera tra due stati slavi. Il confine lo attraverso in direzione Spalato a concludere il mio anello pedalato non dopo aver rifiutato l’ennesima Rakija offertami da una coppia da una coppia di anziani contadini.
Anche in questo viaggio non sono infatti mancate gentilezze e contrattempi, mentre i secondi si dimenticano facilmente, raccontare della cordialità dei popoli che abitano queste terre è sempre un dover che va oltre la cronaca dell’episodio stesso.