Il terzo viaggio in bicicletta nei Balcani inizia per la prima volta in un paese non di lingua slava. Per la prima volta entro in Albania, terra tanto affascinate quanto ricca di contraddizioni. Risalirò il cuore della penisola balcanica attraverso confini incustoditi, vecchi monasteri ortodossi, antiche capitali e nuove speranze. Con la mente aperta ad ogni orizzonte e il cuore sofferente per le ferite della guerra.

Balcani in bicicletta, la terza.

 

Come un emigrante, o un conquistatore metto piede in terra albanese scendendo da una nave. Un traghetto turistico che fa la spola tra Grecia e Albania, ma anche tra un fuso orario e l’altro. Le prime pedalate sono curiose, attorno a spiagge strette e non troppo affollate, successivamente si fanno pesanti e lente sotto l’incedere della prima salita. Lasciato il mare alle spalle, la strada infatti si impenna subito rallentando l’incedere e la velocità.

Il mare di Saranda, Albania.

 

Poche le auto che seguono la mia direzione quasi sicuramente sono più numerose le capre brucanti a bordo strada. La situazione non cambia nemmeno dopo il bivio per Argirocastro, dove si è aperta di fronte a me una valle verde, ampia e rigogliosa. Rigogliosa e stupefacente, nel vero senza della parola.

Argirocastro, sul versante ovest della valle del Drino

 

 La zona era infatti famosa per la coltivazione della marjuana in quantità talmente elevate da essere la fonte di sostentamento dell’intera zona. Argirocastro è arroccata sul pendio sinistro della valle, la si vede già da molto distante, cosi come si notano le mura difensive dell’antico castello e il minareto della moschea di Baazar

Nostalgia di Enver Hodga per le strade di Argirocastro

 

La città che ha dato i natali a Enver Hocxa, feroce dittatore dell’Albania per parecchi anni, propone alcuni scorci molto interessanti, diversi musei e nel suo complesso è stata dichiarata patrimonio Unesco.

Il variegato traffico albanese

 

La pedalata prosegue accaldata, attraverso ampie strade percorse da lucidissime Mercedes e lenti carretti trainati da cavalli. Questo stridente contrasto descrive l’anima ancora rurale di queste zone poco toccate dallo sviluppo economico e turistico e, contemporaneamente, giustifica lo spropositato numero di autolavaggi che si incontrano lungo la via.

Altra città, altro castello

 

Questa volta il castello è quasi nascosto, ma ben conservato e ancora abitato. Sono giunto a Berat, altra cittadina albanese, ricca di storia, monumenti e rimandi ad un passato sempre molto burrascoso. Anche qui l’Unesco ci ha messo il timbro, la cittadella ottomana ben conservata merita tutte le attenzioni del caso, così come il castello ed il ponte Gorica.

L’entrata al castello di Berat

 

Terzo giorno e terza città, questa volta la capitale, Tirana. Vivace senza eccedere nel caos, appare persino più ordinata e ciclabile di quanto sperato. La mescolanza delle diverse culture che hanno contraddistinto la storia d’Albania trova qui il suo apice. Gli edifici di epoca comunista contrastano con i minareti, le cattedrali cristiane si mescolano con le fortezze bizantine. 

Non mancano i quartieri moderni e mondani, ma la vera star di Tirana e dell’Albania tutta è Scandemberg. L’eroe nazionale, gode ancora di una certa venerazione, anche a distanza di secoli e la gigantesca statua equestre che lo rappresenta è uno dei fulcri della città.

Scandemberg a cavallo nella piazza a lui intitolata.

 

Alla sua morte le spoglie furono poste nel mausoleo di Alessio. Più volte saccheggiato è ora facilmente visitabile. Costruito sui resti di una chiesa, si trova nei pressi di una serie di rovine romane non sufficientemente valorizzate. Raggiungere Alessio richiede una mattinata di bicicletta piuttosto noiosa, al contrario il resto della giornata si rivela paesaggisticamente più coinvolgente.

Il mausoleo di Alessio, tomba di Scandenberg

 

Abbandonata la strada principale, già poco trafficata, proseguo su una via che si addentra in una valle completamente isolata e totalmente silenziosa. Il fondo stradale peggiora leggermente, ma lo sguardo volge all’orizzonte dove uno splendido lago riempie il panorama. Attorno verdi pinete interrotte da insenature di acqua limpidissima, qualche capra e nessuna costruzione, almeno fino al fondo della valle.

Sulla strada per Koman, il fiume Drinn si allarga nella valle.

 

La strada conduce, dopo trenta chilometri di saliscendi, nei pressi di un villaggio diroccato posto ai piedi di una diga. Superate le poche case si sale in tunnel scavati nella roccia, e la via termina in un piccolo piazzale posto lateralmente al vertice dell’invaso.

Da questo spiazzo parte un traghetto che conduce dall’altra parte dello specchio d’acqua formato artificialmente. Non trovando lo spazio materiale per piazzare una tenda dormo a bordo del piccolo mezzo lacustre, in compagnia del personale di bordo, coccolato dal rumore dell’acqua e illuminato dal cielo stellato.

Auto in attesa di essere traghettate sul lago di Koman.

 

La mattina seguente la mia crociera durerà circa tre ore e saranno di puro godimento. Il vecchio battello carico di auto, viaggia nemmeno troppo lento, all’interno di un fiordo di rara bellezza dove si aprono continue insenature e il paesaggio varia minuto dopo minuto.

Passaporto,prego.

 

Una volta attraccati e salutato l’ospitale personale di bordo, proseguo in salita fino alla dogana con il Kosovo. Da qui la strada scende dolcemente fino a raggiungere la pianura e successivamente Decani. La cittadina appare anonima, ma pochi chilometri dal piccolo centro a maggioranza albanese sorge uno dei monasteri ortodossi più vecchi e meglio conservati della ex-Jugoslavia.

Il monastero di Decani, anno 1335

 

Essendo oggetto di controversie spesso sfociate in episodi di violenza, il monastero gode della protezione dei militari NATO. Lasciato il passaporto al check-point posso entrare e visitare un angolo di storia e meraviglia. Il tempo sembra essersi fermato all’interno di questo contesto religioso e culturale estremamente importante e cruciale.

Il pass della KFOR che consente l’accesso al monastero.

 

I frati mi offrono la possibilità di una visita veloce, durante la quale scopro che i militari che trovo di guardia sono italiani. Scambio due parole anche con loro prima di riprendere a pedalare in direzione di Peja.

La cittadina si trova ai margini della pianura kosovara, proprio ai piedi delle montagne che fanno da confine con il Montenegro, proprio quel confine che mi aveva respinto nel precedente viaggio nei Balcani. Ora provo ad affrontare il Kulina pass dall’altro versante, burocraticamente meno vincolante, ma non per questo privo di apprensioni.

Vista da Peja. In mezzo alle montagne parte la strada per il Kulina Pass.

 

Imbocco uno sterrato malmesso dopo aver percorso una valle circondata da pareti di roccia maestose. Passato questo bivio aspetto con curiosità il confine incustodito, che si manifesta con delle piramidi anticarro nei pressi di un guado. 

Questo residuato bellico impedisce alle auto il passaggio, ma non a pedoni e ciclisti. Tutto ciò farebbe presupporre che dalla parte montenegrina siano stati predisposti dei controlli per evitare l’immigrazione clandestina. Non vedendo anima viva nei dintorni rimonto in sella, convinto che l‘ingresso in Montenegro sia un formalità superata. Mi sbagliavo.

Il confine kosovaro montenegrino con i blocchi di cemento anticarro.

 

Nella terra di nessuno, pedalo sereno e indisturbato fino alla visione di una jeep della polizia che mi toglie il sorriso e la tranquillità. Devo svegliare i tre poliziotti a bordo per non essere scambiato per fuggiasco. I tre, molto grotteschi nei modi, dopo il controllo del passaporto mi invitano a far ritorno sui miei passi. Sfodero occhi stanchi e supplichevoli e tanto basta a concedermi, eccezionalmente, il passaggio.

Lunghissima discesa e mi ritrovo ancora a Berane, come due anni fa, proseguo verso nord entrando prima in Serbia e subito dopo in Bosnia. L’entroterra balcanico è costituito ancora una volta di salite dolci, rari villaggi e traffico che si concentra solo nei posti di frontiera.

Ancora ponti

Mentre la storia dei ponti di Mostar e della Neretva è legata alla loro recente distruzione, quello della Drina a Visegrad ha resistito ai secoli e alle guerre. Divenuto celebre grazie al romanzo di Ivo Andric, il ponte è stato per anni il fulcro sociale e commerciale di Visegrad, per poi diventare un monumento alla letteratura bosniaca.

Il ponte sulla Drina, Ivo Andric.

 

Srebrenica è un toponimo che già di per sé mette i brividi così come la distesa di lapidi bianche che lascia senza parole. Come recita una scritta all’ingresso sono oltre ottomila, sono i morti mussulmani che riposano o aspettano di riposare in questo enorme cimitero. Alcuni infatti non sono ancora stati recuperati dalle fosse comuni che furono riempite in quei tristi giorni del luglio 1995.

La tragica conta all’ingresso del cimitero di Srebrenica.

 

Il viaggio in bicicletta attraverso la storia di un paese porta anche a questi momenti di immensa amarezza, non nascondo una certa angoscia e imbarazzo nell’attraversare le vie cittadine. Per questo motivo evito con mestizia lo sguardo dei pochi abitanti e proseguo per la mia strada.

In una terra con tutte queste divisioni, attraversare un confine diventa quasi routine. Sono di nuovo in Serbia e mi dirigo verso la seconda capitale di questo piccolo tour balcanico. Belgrado, la città bianca, sorge alla confluenza del Danubio e della Sava. Gli immancabili edifici di epoca comunista sono tappezzati di cartelli pubblicitari e portano ancora i segni dei bombardamenti NATO.

Anche a Belgrado non si dimentica.

 

Difficile annoiarsi nella capitale serba. Si può godere del tramonto guardando i fiumi dall’alto della fortezza medioevale, oppure sostare nei pub e mescolarsi ai serbi mangiando cevapi e bevendo rakjia. La cattedrale di San Sava attira turisti e religiosi, mentre la tomba di Tito curiosi e nostalgici. Il mio tempo si esaurisce rapidamente ed è ora di risalire in sella.

Ancora stragi

 

Il viaggio volge al termine, lascio la capitale serba con qualche difficoltà a causa del traffico. Costeggio il Danubio per qualche chilometro e soffro a causa del caldo che ritrovo nella pianura Croata. Ho, infatti, appena passato l’ennesimo e ultimo confine. All’orizzonte appare lo scheletro martoriato dell’acquedotto di Vukovar.

L’acquedotto, simbolo dell’assedio e della resistenza di Vukovar

 

Simbolo della resistenza Croata di fronte all’assalto dell’artiglieria cetnica, resistette e si regge ancora come ennesimo monito, colpito e sofferente come gli abitanti di Vukovar. Per le vie si alternano case di nuova costruzioni a ruderi che portano i segni dei proiettili alle pareti. Chi è rimasto ha resistito alle atrocità degli eventi bellici ed è ripartito con quel poco che era rimasto. Nessuno vuol dimenticare e anche qui come a Belgrado, Sarajevo e nel resto della ex-Jugoslavia nessuno resta indifferente di fronte a tale disgrazia. Nessuno deve dimenticare.

Nascono fiori dal monumento alla guerra di Vukovar.

 

Il monumento alla guerra di Vukovar rappresenta con il solito macabro sarcarsmo balcanico, la speranza e la voglia di riemergere, ancora una volta, dalle macerie della miseria umana.