Bolivia in bicicletta.

 

La carta geografica dice “Bolivien”, è tedesca, l’unica che ho trovato per disegnare il mio viaggio. Di tedesco però ha ben poco. È imprecisa e pressoché inutile, ma dell’ ordine e della precisione teutonica troverò ben poco anche in Bolivia.

Santa Cruz de la Sierra–Samaipata

 

Prime pedalate per lasciare Santa Cruz de la Sierra città a 300m sul livello del mare che sorge ai bordi della foresta amazzonica e ai piedi delle cordigliera orientale. Hinterland caotico, densamente abitato ed eccessivamente trafficato, primi pericoli e primo contatto con la guida nervosa dei boliviani.
La Guardia, Santa Rita , El Torno la toponomastica ancora per qualche chilometro risente fortemente dell’influenza spagnola, poi a farla da padrone saranno per lo più villaggi con nomi che richiamano un origine quechua o aymara. C’è continuità tra un villaggio e l’altro, non si capisce dove sia finito il primo che già ci si ritrova nel centro di quello dopo, la strada è spesso a doppia corsia e ciò significa spesso doppio pericolo, anche perché spesso la prima è usata come parcheggio o mercato.
Juanito avrà circa dieci anni corre a piedi nudi sull’asfalto bagnato e, nemmeno troppo affannato, mi affianca e mi chiede dove sono diretto. “ Samaipata” dico io, “ non ce la farai mai!” sentenzia lui. Bimbo di poca fede, aumento il ritmo in segno di sfida e lui mi saluta con un sorriso scettico e sornione, dopo qualche pedalata mi volto e Juanito è ancora in mezzo alla strada, fermo e curioso controlla il mio andare sicuro. Ci salutiamo una seconda volta.

Fango e terra per la prima salita boliviana

Sacchi di verdura, taxi collettivi, auto in seconda fila, motociclette in overbooking, cantieri aperti e buche killer . Tutto questo marasma stradale si interrompe in parte e a sorpresa appena giungo a La Angostura. E’  l’ultimo villaggio dove trovo solo qualche militare sfaccendato, una costruzione con annessa sbarra che ha le parvenze di un casello autostradale e gli immancabili cumuli di frutta in vendita. Sulla mia strada ora niente più pericoli, parcheggi selvaggi, assembramenti imprevisti, o e bancarelle improvvisate mentre le buche no, quelle rimangono.
Nel giro di pochi metri cambia tutto, ora nessun paese per diversi chilometri, solo un fiume che scende parallelo alla mia strada e foreste verdissime. L’ asfalto è spesso interrotto da tratti di sterrato e fango, ricordo di qualche recente frana, provocata dalle piogge tropicali. Terra rossa, primi campesinos e qualche maiale in cerca di cibo a bordo strada, prime tracce della Bolivia rurale e contadina che tanto mi attrae ed incuriosisce.

Salita costante, pochi i tratti di respiro, difficoltà altimetriche e stradali che mi accompagnano fino a Samaipata, famosa per le rovine preincaiche di recente scoperta e per i numerosi percorsi di trekking all’interno del parco National de l’Amborò. C’è vita in questo villaggio con parecchi turisti in attesa alla fermata del bus e diverse persone del posto che affollano la piazza principale.

Samaipata-Vallegrande

 

La strada principale asfaltata è l’unica facilmente percorribile in questo piccolo centro a 1700 metri d’ altitudine, il resto sono sterrati o peggio ancora strade costruite con sassi di fiume, pericolosi e sobbalzanti, chissà quanto tempo fa.
Dopo appena pochi chilometri di salita mi aspetta una lunga picchiata fino a Trigal, perdo quota lentamente scrutando l’orizzonte in cerca della strada che dovrò percorrere e allo stesso tempo ammirando l’enorme vallata sottostante completamente disegnata dalle diverse coltivazioni. L’altitudine è ancora limitata non è da escludere quindi che le verdeggianti piante che coprono le colline siano le ultime coltivazioni di coca prima che la quota ne limiti la crescita.
Giungo a Trigal quando la città si sta ancora svegliando, ricevo le prime domande dei curiosi che fanno compagnia e corroborano quando sono seguite da incoraggiamenti sinceri. Faccio scorta di acqua, spendo cinque bolivianos per un po’ di olio sulla catena e compro qualche dolce per edulcorare le sofferenze delle salite che mi aspettano, la frutta la potrò acquistare lungo la strada da qualche contadina annoiata.

Compro un po’ di frutta per il viaggio.

 

Diverse asperità, brevi discese, orizzonti chiusi da alte colline a preludio di altre fatiche, e poi finalmente in uno pianoro quasi improvviso, appare lontana la città di Vallegrande. La valle ha offerto questa pianura inaspettata e qui è sorta questa cittadina di diecimila abitanti con un piccolo aeroporto la cui pista è stata per trent’anni il luogo segreto di sepoltura di Ernesto Che Guevara.
Il primo incontro è con un eccentrico venditore ambulante di hot-dog, con il suo cappellone da cow-boy e i baffoni curati ha l’aria di chi la sa lunga. Ha viaggiato molto, fa qualche domanda ma ha pure parecchi consigli da dare: conosce le strade che devo affrontare e sa indirizzarmi da chi può farmi visitare il museo cittadino dedicato al Che, visto che non è sempre accessibile.

Vallegrande-La Higuera

 

La conversazione con Josè inizia quasi per caso, ma non in luogo qualsiasi. Facciamo conoscenza all’ospedale di Vallegrande di fronte alla vecchia lavanderia, ora chiusa e protetta da un cancello, dove il corpo del rivoluzionario argentino fu esposto e fotografato pochi giorni dopo il suo omicidio. Josè è un medico cubano, uno dei tanti specialisti che l’isola caraibica “esporta” nei paesi in cui la carenza di personale ospedaliero rende ancora più ardua l’esistenza di popolazioni già provate dalla povertà. La chiacchierata col “ missionario comunista” ( come si definisce lui) è piacevole ed intensa. I discorsi legati al costo della bici o vertenti lo stipendio di un operaio italiano, che tanto avevano interessato i boliviani in precedenza, lasciano il posto alla storia di quel luogo e all’attualità politica di Cuba e dell’America Latina, ai principi di solidarietà e uguaglianza che l’uomo ha perso col tempo e che forse proprio in quel luogo erano stati sepolti insieme alle utopie e al corpo di Che Guevara.
Bolivien dice che per i prossimi trecento chilometri saranno sterrati e purtroppo non si sbaglia. Sconnesso, poco pedalabile e con scarse indicazioni il percorso procede pianeggiante per diverso tempo, anche se le mie ricerche internet dicono che ora dovrei trovare una salita di circa dodici chilometri e pure molto dura.

L’orizzonte si apre improvvisamente.

La vegetazione ancora incredibilmente verde è tagliata da questo lungo serpente di sabbia e sassi che si arrampica fino al culmine, spiana un po’,riesco a riprendere fiato e la scena si ripropone quasi identica per la seconda parte della salita. Cani randagi, folate di vento, cartelli di legno che indicano località più remote, curve secche e rampe di garage e, fortunatamente, qualche scarso dolce rettilineo. Incontro anche degli operai addetti alla manutenzione della strada, impresa che oltre che dell’impossibile ha pure del ridicolo: sono quattro personaggi lenti e goffi vestiti di giallo e armati di pale e picconi.
Troppo facile pensare ad una discesa dopo tutta questa fatica -la salita è durata tre ore-, terminata la faticaccia il panorama si apre, la vista è di quelle che riempie gli occhi e l’anima. Sono a 2400slm e pedalo su un continuo saliscendi con lo sguardo che si perde nell’orizzonte lontano. Qualche baracca di pastori, isolati lassù a diverse ore dalla civiltà, senz’acqua ed elettricità , poi incrocio la prima auto del giorno, una jeep, magari proprio di uno di quei pastori. Accenno un saluto stanco, ma l’autista non ricambia. Proseguo e la vista di quel cielo e di quegli spazi che si sono manifestati di fronte a me alleviano un po’ il nervosismo che può affiorare mentre si pedala su terreni che sembrano peggiorare pedalata dopo pedalata.

Entro nel villaggio di La Higuera

Nel villaggio di Pucarà mi concedo il lusso di pedalare per poche centinaia di metri su un fondo stradale perfettamente liscio, ma è un illusione che dura poco tempo. Sembra di essere in un paese abbandonato del far-west: sole cocente, nessun anima per le strade, una campana nella piazza che suona sbattuta dal vento, c’è pure un cavallo in fondo alla via. Manca solo il cespuglietto di rovi portato dal vento e il suono di un’armonica a bocca.
Riprendo la mia strada ed ecco un altro bivio, stavolta però devo lasciare il percorso principale per una località remota come tante altre, ma assai tristemente più famosa: La Higuera.
I sassi sulla mia strada aumentano di numero e dimensione, tanto che oramai mi sembra di seguire un sentiero di montagna, questa mulattiera si addentra per almeno dieci chilometri in mezzo a boschi che sia alternano a piccoli pascoli e rare costruzioni. Incrocio una 4×4 della croce rossa che scoprirò poi essere il servizio medico che di routine passa settimanalmente in questi paesi dimenticati da dio. Finalmente la vegetazione si apre e capisco che la mia metà è vicina: appena più sotto si intravvedono delle case ( non più di dieci) e un edificio più grande dal tetto blu.
Forse per renderlo ben visibile dall’alto in caso di bisogno, questa costruzione è allo stesso tempo scuola, campo da basket, ostello e probabilmente abitazione di qualche locale.
Il motivo che mi ha spinto fin qui si trova alla fine di La Higuera, nell’ unica piazza al termine dell’unica via. Al centro una statua del Che, un busto e sui muri diversi volti raffiguranti il rivoluzionario argentino, dall’altra parte “l’escuelita” ora museo, luogo nel quale lo stesso Che fu ucciso nel 1967.

La higuera, a cena con Javier.

Ogni abitante de La Higuera si è attrezzato per poter ospitare le centinaia di pellegrini che ogni anno arrivano in questa amena località, il mio “alojamento” è uno stanzino con cinque letti e una modesta quantità di polvere e coperte, il bagno è angusto, ma eccezionalmente oggi è fornito di acqua calda e corrente elettrica. Passo la serata nella casa de la “duena”, una costruzione più datata e malmessa che funge da sala da pranzo, cucina e piccolo negozio. Seduto ad un tavolo, da un lato io e altri due uomini ceniamo con riso, patate e formaggio acido, dall’altro la padrona è intenta ad impastare il pane per la mattina dopo. Uno di loro, Javier, ha lineamenti meticci, due baffi curatissimi, vestiti logori e un viso da cattivo di film western, l’altro di cui non ricordo il nome ha un aspetto più trasandato, sembra più anziano. Dice di avere sessantasei anni e ai tempi della cattura del Che viveva già in quella casa, e tutto quello che ho letto sui libri lui lo ha visto in prima persona. Parte con un racconto, molto enfatico, su quei primi giorni dell’ottobre del ’67. Ricchezza di particolari e riscontri storici, mi confermano che non faccio parte di un rituale di fantasia imbastito per nostalgici cheguevariani. Ricordi, episodi, piccoli particolari e la narrazione del “vecchio” mi emozionano, la storia quella vera quella che si studia sui libri era passata proprio di li accanto a me e alla mia bicicletta.
Prendo sonno facilmente nonostante l’intensità della giornata e la misticità del luogo in cui mi trovo.

La Higuera-Sucre

 

Il forcellino posteriore ha fatto crack: la ruota posteriore restava inspiegabilmente frenata e abbassando lo sguardo verso il mozzo scopro il danno. Sono in uno dei luoghi più isolati della Bolivia, ma fortuna vuole che a colazione avevo conosciuto Carlos, un ragazzo del luogo mio coscritto, che vive trasportando turisti da la Higuera alla prima fermata di bus. Mi accordo per farmi dare un passaggio alla prima città dove si trovano dei saldatori. Saranno un centinaio chilometri di paura, preghiere e paesaggi mozzafiato.
Questa parte ha poco di cicloturistico, ma merita qualche riga.
Carlos si prepara al grande viaggio. Primo: per andare in città occorre mettere una targa valida all’auto. Secondo: controllo, con sguardo tra lo scettico e l’esperto, ai braccini dello sterzo. Al controllo visivo segue un segno della croce a confermare l’effettiva efficienza degli stessi. Terzo sacchetto con foglie di coca e tanica di acqua per il radiatore .

L’immancabile sacchetto con le foglie di coca.

Partenza. Discese, salite, strapiombi interrompono spesso i nostri dialoghi, un minimo di preoccupazione c’è e nessuno dei due la nasconde.
Poche abitazioni isolatissime, strade rubate al fango e alla montagna, animali denutriti e buche di dimensioni imbarazzanti. Non so se legare la cintura di sicurezza sia un’idea buona visto che nei film ci si salva solo buttandosi anzitempo, prima che l’auto finisca nel burrone.
Siccome le disgrazie non vengono mai da sole, dopo l’ennesima sosta Carlos mi fa capire di avere problemi al radiatore, con le mie brugole lo sistema in qualche modo, scompare per 10 minuti nella valle e torna con acqua di fiume per rabboccarlo ( la sua scorta era finita da un pezzo).

Consueto segno della croce e ripartenza, per riprendere il paragone cinematografico ora non capisco se mi trovo in un film di Fantozzi o un horror adrenalinico. Dopo sette ore di angoscia si arriva sani e salvi a Villa Serrano. Nessuna salda allumino e quindi per sistemare la mia bici dovrò proseguire in bus fino a Sucre, ma almeno l’amico boliviano trova un meccanico che gli può riparare il radiatore.

Sucre

 

Don Mario è l’unico saldatore di alluminio in tutta Sucre, così sostiene lui. Amichevole e all’apparenza professionale provvede a saldare la mia bicicletta dandomi precedenza assoluta. Il suo aiutante è un giramondo molto loquace e con diverse mogli (e probabilmente anche figli) sparsi in diversi stati del sud America. Mezz’ora e l’intervento sembra ben riuscito, saluto foto di rito e poi corro a verificare seppur sommariamente il lavoro fatto con qualche pedalata in giro per Sucre mentre mi godo il mio giorno di riposo.
La ciudad blanca famosa per i suoi edifici coloniali è stata per parecchi anni capitale della Bolivia, Visitando il palazzo della libertà si può vedere la dichiarazione di indipendenza che nel 1825 venne firmata da Simon Bolivar oltre a vari quadri e oggetti che appartenuti al grande rivoluzionario sud americano.
Per qualcosa di più frivolo, attuale e colorato si può visitare il mercato al coperto di Sucre, un’immensa costruzione su due piani dove si vende ogni genere di mercanzia e dove è possibile mangiare un piatto caldo ad ogni ora del giorno ( anche se questo credo sia possibile in ogni angolo di Bolivia).

Il colorato mercato di Sucre.

Serve un minimo di adattamento agli standard boliviani e dopo non avremo più difficoltà ad affrontare i cani che gironzolano nel reparto macelleria o i sacchi di pasta dove ogni passante mette le mani. Superato lo scoglio si può anche affrontare la diversamente pulita cucina del mercato e farsi servire un piatto di sopa de manì ( buonissima zuppa a base di arachidi ) o più semplicemente riso, pollo e banana fritta.
Il reparto frutta e verdura è il più colorato e profumato. Ortaggi e frutti, alcuni dei quali sconosciuti, accatastati con un incredibile ed inusuale ordine ( sempre per via degli standard boliviani) Ceste di legno, mucchi di spezie dai nomi stravaganti, frutta secca e sacchi di bacche sconosciute; esco con un piccolo rifornimento per il giorno dopo e uno spaccato di quotidianità locale.

Sucre-Betanzos

 

Ai boliviani che tu sia una bici carica o un tir non fa nessuna differenza: in mezzo al traffico del lunedì mattina sei sempre un potenziale nemico, uno che ti può passare avanti quindi non aspettarti favori da altri mezzi o autisti che col sorriso ti danno la precedenza. La battaglia nel traffico di Sucre è tra le più impegnative mai combattute, alla fine cedo e mi ritiro sul marciapiede dove trovo pedoni più comprensivi.
Appena fuori città il traffico si riduce a poche auto lanciate a velocità da rally e qualche bus puzzolente, il paesaggio è quasi desertico e le uniche macchie verdi sono dei campi da calcio paradossalmente curati e irrigati meglio delle piantagioni di quinoa. Giornata di salite e grande dislivello, da Sucre devo avvicinarmi a Potosì ovvero passare da 2800 metri sul livello del mare a 4000. Pedalo con vento alla spalle lentamente e masticando foglie di coca, per combattere un principio di mal di testa, forse legato all’altitudine, che poi non arriverà mai. Posso dire di aver testato personalmente gli effetti stimolanti e analgesici di una pianta che è utilizzata da secoli dalle popolazioni andine. Le foglie hanno un sapore amarognolo e poco invitante. A volte addolcito da qualche caramella, qui tutti proseguono con il loro obolo di foglie in bocca che crea una protuberanza all’altezza della guancia. Pedalo pure io così: “tomando coca”

Sulla strada per Potosì.

 

Le salite sono toste non fa caldo, ma il sole è fastidioso, l’asfalto è ottimo e ogni tanto incontro qualche donna diretta al campo, non tutte sono disponibili al dialogo, con una in particolare invece ci facciamo una breve chiacchierata. Cammina con una fascina di arbusti sulle spalle alta almeno il doppio di lei, prosegue spedita nonostante il fisico tozzo e l’età avanzata. Nelle mani ha un sacchetto di provviste che le serviranno per la giornata di lavoro ad accudire le sue bestie, nelle tasche del coloratissimo ed impolverato vestito tipico non manca un moderno cellulare.
In serata giungo stremato a Betanzos, appare nel nulla in un pianoro a 60 km da Potosì, una ragazza boliviana che ha lavorato come badante a Roma mi consiglia l’albergo giusto e mi mostra il suo negozio comprato con i guadagni fatti in Italia, infine mi dirige verso l’ambulante dove mangerò la prima cotoletta boliviana.
Alla luce di un neon e stranamente senza un numero eccessivo di mosche una signora corpulenta prepara cotolette impanate e fritte al momento rinchiusa in questo piccolo baracchino abbastanza vissuto. Con dei movimenti sincronizzati e lavorando a memoria in un pochi istanti riesce a : rompere e sbattere un uovo, impanare la carne, cuocere la carne e patatine ( nello stesso olio ovviamente) servirla con riso, cipolle, maionese e pomodori. Trova pure il tempo di farsi pagare e darmi il resto. L’insieme è pure apprezzabile, me lo gusto al banco con altra gente del paese, nessuno mi nota e nessuno fa domande, rientro rapido in albergo dove il neo proprietario quasi vergognandosi mi chiede di essere parsimonioso con l’acqua corrente, perché in paese scarseggia, in compenso posso usare il wifi finchè voglio. Difficile comunque lavarsi con i byte.

Betanzos-Potosì

 

Si riparte seguendo ancora la ruta 5 , impossibile sbagliar direzione: la strada asfaltata è quasi sempre solo una e le deviazioni sterrate portano solo a piccole frazioni che sulle cartine non sono nemmeno segnalate. A far da contrasto a questo paesaggio quasi monocromatico e semidesertico, ci pensano le compagnie telefoniche.
I logo dei tre gestori telefonici boliviani sono dipinti, incollati e appesi in ogni luogo possibile. Fastidiosi e visivamente inquinanti aiutano comunque a disegnare l’identikit del boliviano medio, pure lui distratto ed ipnotizzato dalle stesse armi che si utilizzano anche nei paesi più evoluti.
Il contachilometri segna già 4000 metri di altitudine , Potosì è alle porte, all’orizzonte le prime montagne innevate fanno da sfondo al Cerro Rico, la montagna simbolo della cittadina boliviana, una gigantesca, incredibile miniera d’argento. Si dice che con l’argento estratto qui gli spagnoli avessero potuto costruire un ponte che attraversasse l’atlantico e arrivasse in Spagna. La scoperta di questa ricchezza ha consentito la nascita della città e in seguito, purtroppo, lo sfruttamento della popolazione indigena. Ad oggi la miniera è ancora in funzione ed è visitabile. La gestione è affidata ad una cooperativa di minatori, che ne trae lo stretto necessario per sopravvivere.

L’entrata al complesso minerario del Cerro Rico

 

Famosa per i suoi edifici religiosi, come le numerose chiese e il convento di san Francisco deve la sua fama anche alla casa della moneda, che come fa intuire il nome era il vecchio conio dove venivano prodotte le monete della Bolivia. Istituzione che ebbe una grande importanza tant’è che si esclude persino che il simbolo del dollaro USA sia nato riprendendo il simbolo delle monete coniate in questo posto, formato sovrapponendo le lettere PTSI, simbolo della moneta locale che deriva dal nome della città.

Potosi-Ticatica

 

Da qualche giorno vedo pascolare degli animali che potrebbero essere lama, alpaca o qualcosa della stessa famiglia, ma oggi per la prima volta me li ritrovo in strada, per nulla spaventati continuano la loro routine, attraversano lentamente e sembrano mettersi in posa per le foto che scatto in abbondanza.

Lama a bordo strada.

In circa due giorni dovrei giungere ad Uyuni, una delle principali mete turistiche della Bolivia, la strada da percorre offre ancora diverse difficoltà altimetriche, ma anche paesaggi quasi lunari e una pace e silenzio disarmanti. Avrò modo di toccare il tetto massimo del viaggio al termine di una salita di 12 chilometri e con scollinamento a quota 4230. Tutto questo dopo parecchie ore di pedalata, la fatica dell’altitudine e il sole tramontato. Il panorama dalla cima me lo posso solo immaginare, ora la mia concentrazione va solo nella lunga discesa affrontata con l’ausilio determinante di luce frontale sul casco e illuminazione della bici. Lampioni non ne ho trovati nemmeno a valle, nel villaggio di Ticatica dove ho trovato ospitalità in una capanna dal tetto di paglia attraversato da cavi elettrici, due letti e un bagno ( condiviso) che evito di descrivere.
Mi rifornisco, come i pochi abitanti, nel piccolo emporio riconoscibile perché è l’unica fonte di luce del paese, si cammina al buoi o con la torcia. Le solite innumerevoli varietà di bibite colorate, dolci e caramelle di ogni gusto e origine, ma nulla di sano. Si cena a cracker e coca cola, rimpiangendo la sopa de manì e la banana fritta.

Ticatica-Uyuni

 

Alla luce del sole questo villaggio si manifesta per quello che mi ero immaginato, una stretta e polverosa via accanto alla strada statale a cui quasi nessuno sente il bisogno di dedicare nemmeno uno sguardo. Saluto e pago chi mi ha ospitato con la naturalezza e spontaneità di chi vive una vita semplice e povera di diffidenza. Mi vogliono offrire la colazione, ma la bici è già carica come lo sono io in vista dell’arrivo imminente ad Uyuni.

Sulla strada per Uyuni.

Poche ore di noiose pedalate e improvvisamente dopo l’ennesimo strappo appare sullo sfondo Uyuni, omogenea per altezza delle costruzioni e geometrica per distribuzione delle strade. Vista dall’alto sembra una città disegnata da un bambino. Attraversata da uno dei pochi binari ferroviari della Bolivia, deve il suo abbondante flusso di turisti e la sua ricchezza alla vicinanza di uno dei più grandi deserti di sale della terra, da cui prende il nome: il Salar de Uyuni.
Maggior presenza di turisti vuol dire prezzi più alti e servizi più scarsi, è un equazione illogica, ma forse è un modo indiretto per pagare in qualche modo lo spettacolo che offre la natura in questi posti meravigliosi.

Uyuni-Isla Incahuasi

 

Una qualsiasi ricerca internet vi può dare una descrizione più completa e precisa della mia del salar de uyuni. Aggiungere particolari con nozioni di geologia e morfologia, sul come e perché si è formato e altre mille particolari. Poi quando ci arrivi, dopo tanta fatica e attesa, non puoi fare altro che commuoverti. Nella sua semplicità è una delle sensazioni più complesse da spiegare.
Una distesa di sale lunga centoventi chilometri circa , larga ottanta con all’interno alcune isole che emergono fino ad un altezza di 120 metri, sul livello del sale.

Nel salar de Uyuni

Ultimi rifornimenti a Colchani a nord di Uyuni, seguendo le indicazioni giungo all’entrata del salar, una guardia mi saluta sorridente –in auto ci entrano solo tour organizzati- e poi via verso l’orizzonte che sembra infinito. Mi sono attrezzato con una piccola bussola, direzione Ovest, ma i segni delle jeep hanno segnato col tempo delle piste più lisce dell’asfalto.
Pedalo per circa 80 nel nulla assoluto, due colori il bianco del sale e l’azzurro del cielo, sfrecciano ogni tanto le jeep di turisti, a volte si fermano per fotografare, spesso salutano dimostrando stupore e stima.
Lentamente si comincia a riconoscere un orizzonte meno lontano, sembra quasi emergere dal sale e sovrapporsi alle sbiadite montagne cilene lontanissime e sbiadite sullo sfondo. La direzione è quindi quella giusta, l’isola Incauasi è quasi raggiunta. Famosa per essere l’unica abitata del Salar è anche la metà dei vari tour che portano i turisti dall’alba al tramonto per godersi il paesaggio da un punto di vista privilegiato. Pago la mia tassa di soggiorno all’ufficio del turismo e mi viene accordato il permesso di campeggiare, ma lontano dalla zona più battuta.

Campeggio ai bordi dell’isola.

Mi godo il tramonto dalla vetta dell’isola, una visione a 360° di questa meraviglia , nessun rumore e nessuna luce se non quelli offerti dalla natura. La tenda si scorge la in basso in una radura tra i cactus che altissimi crescono sull’isola, le piste segnate dalle jeep disegnano quasi dei raggi che parto dall’isola e si perdono all’infinito, da una parte la cordigliera cilena, di fronte a me a nord il vulcano Tunupa e alla mia destra la strada percorsa la mattina che si perde nel nulla.

Volcan Tunupa

Essere svegliati dal traffico in mezzo ad un deserto può sembrare impossibile, ma è andata così. Diverse jeep affollano già l’isola e a dir la verità il sole è già alto, qualcuno a passeggio mi guarda sorpreso mentre esco come una larva dalla mia tenda e mi stiracchio soddisfatto della dormita e del paesaggio. Lentamente e senza ansie, in pieno stile boliviano, smonto tutto e riparto, per la mia seconda giornata nel Salar. Quaranta chilometri verso nord, pranzo ai piedi del vulcano e ritorno.

La porta nord del salar.

Muri di pietra ed erba verde, coltivazioni di quinoa e qualche abitazione e le indicazioni per raggiungere i villaggi più vicini, sono a Coqueza la “porta “ nord del salar. Mi preparo zuppa all’ombra di una capanna abbandonata, mentre una donna del posto mi racconta le difficoltà che la popolazione locale e della Bolivia in genere deve affrontare da quando gli Stati Uniti hanno iniziato la coltivazione della quinoa facendone crollare il prezzo. Sembra che voglia sfogarsi, non c’è la solita rassegnazione boliviana incontrata finora, la sua è quasi rabbia, vuole far sapere che per l’avidità di pochi intere generazioni di contadini stanno facendo la fame.
Rientrato all’isola mi dirigo verso l’abitazione di Alfonso e sua moglie unici abitanti dell’isola e gestori di un piccolo ostello, di sale ovviamente.
Sono molto conosciuti tra i cicloviaggiatori e molto disponibili, Alfonso mostra orgoglioso le foto e le dediche di altri ciclisti passati da loro, alla richiesta di una foto, accetta volentieri, ma prima vuole mettersi gli abiti tipici. L’ego delle tradizioni. Dormo da loro, in una piccola stanza con letto di sale e vista sull’infinita bellezza del salar, è l’ultima notte ci passo.

Isla incausasi-Uyuni

Ultime pedalate, rientro ad uyuni per la stessa via, per assurdo il posto più bello di tutto il viaggio è quello che richiede meno parole. Questa volta si viaggia verso est, aspettando che all’orizzonte appaiano le Ande e il bianco del sale venga tagliato dal marrone della terra.

Tramonto dal Salar de Uyuni, sullo sfondo il vulcano Tunupa.

A Colchani mi concedo una grigliata di lama in stile boliviano , ovvero con la griglia in mezzo ad una strada polverosa e trafficata ed un autogestione della stessa da parte dei clienti. Se la proprietaria è troppo indaffarata , la carne la puoi girare tu, se il tuo pezzo di carne è un po’ crudo lo puoi rimettere a cuocere, nessun problema.

Non mancano i consueti cani a gironzolare attorno alla griglia, prima o poi qualcosa arriverò anche a loro.
Mancano pochi chilometri prima del rientro ad Uyuni e della fine del viaggio quando, ironia della sorte, incontro i primi colleghi ciclisti del viaggio. Si sono conosciuti in strada sono un argentino e un brasiliano che hanno percorso la mia stessa strada. Biciclette datate, abbigliamento non proprio tecnico, bagaglio che sembra rimanere sulla bici per miracolo, ma tanta curiosità e voglia di viaggiare.
Ora non posso che provare invidia per questi due personaggi buffi e caricaturali, uno con la fascia per il sudore in stile tennista anni ’80 e l’altro con una giacca a vento aggiustata con il nastro adesivo. Vecchie mountain bike, pompe lunghe un metro attaccate di traverso, bottiglie di plastica invece della borraccia e scarponi per pedalare.
Invidia perché le mie pedalate si interrompono qua, la saldatura sta cedendo di nuovo e non posso rischiare di percorre altra strada, in parte sterrata, con la bici al limite.
Ha ceduto la bici e ha vinto il mio senso si appagamento, i luoghi del Che, Sucre, Potosì e la meraviglia del Salar. Forse avrei potuto rischiare oltre, tentare un ulteriore riparazione, ma come dico sempre nel cicloviaggiatore non contano le gambe, ma la testa.

La Paz

 
Raggiungo La Paz con un viaggio in bus altrettanto avventuroso a causa di una rottura del mezzo e di un assistenza che segue i tempi lenti del deserto che stavamo attraversando.
All’opposto, la capitale boliviana è tutt’altro che desertica, popolosa all’inverosimile è cresciuta in una conca che negli anni è stata edificata in ogni angolo possibile, anche sfidando in più di un occasione le basi dell’architettura.
Riprendo la bici, non la mia, per affrontare con un gruppo organizzato la discesa verso Coroico, attraverso la Carretttera de la Muerte.
Il nome è retaggio del passato, ora la strada è percorsa solo dalle biciclette e i numerosi bus o auto che una volta rischiavano grosso su queste pendenze, percorrono una via di nuova costruzione.
Sono circa cinquanta chilometri di discesa quasi totalmente sterrata, che portano dai 4600m de la Cumbre, sopra La Paz, fino ai 1000m dello Yungas, uno delle zone principali dove viene coltivata la coca.
Discesa verso Coroico, Carrettera de la Muerte.

Carretera de la Muerte.

 
 

Il mio cicloviaggio finisce con una rapida visita della capitale, prima di far rientro a casa. Nonostante gli imprevisti e i guasti è stato comunque un viaggio appagante e ricco. Duro e commovente allo stesso tempo, ho lasciato in Bolivia tante energie e fatica, ma anche un sacco di cose da vedere e strade da pedalare.

A presto Bolivia.