Trieste porta dell’est, oltre questo confine finisce l’occidente e ci si immerge in una mescolanza di culture e religioni che convivono da secoli, non senza problemi, una affianco all’altra. Guerre, invasioni e lotte intestine hanno caratterizzato la storia dei Balcani, territorio la cui bellezza stupisce, così come non lascia indifferenti la disponibilità e la fratellanza con cui si viene accolti.

Da Trieste ad Istanbul in bicicletta

 

Percorrere a ritroso le strade attraversate dai turchi cinquecento anni prima, visitare i palazzi della dominazione asburgica a Sarajevo,  vedere la recente guerra balcanica negli edifici forati dai proiettili o nelle lapidi che parlano di lutti recenti. E poi ancora il Kosovo, lo stato più giovane al mondo dove la popolazione sta provando a ripartire dopo i soprusi subiti nel conflitto del ’99. La Bulgaria famosa per i monasteri ortodossi, ma ricca di cultura islamica. Meta finale del viaggio è Istanbul. La dove tutto è iniziato.

 Trieste–Klenovica

Il golfo di Trieste è già alle spalle, la bicicletta è già rivolta ad est. Pedalo per qualche chilometro in territorio italiano, i nomi delle vie sono già tutti in slavo, le strade sono deserte e scorrono dolcemente attraverso i fitti boschi di pini marini. Arrivo brevemente a Basovizza e mi dirigo verso la foiba. 

Percepisco rapidamente il silenzio, la quiete e la sensazione di isolamento. In questo contesto è facile immaginare le urla dei disperati che vennero gettati a morire dentro quelle gole profonde. Simbolicamente mi approccio a quel che resta della grande Jugoslavia di Tito e mi imbatto in una delle pagine nere maresciallo.

Golfo di Trieste alla partenza

Mi hanno appena parlato della ciclabile della val Rosandra. Quindici chilometri di pista che ripercorrono un antica linea ferroviaria dismessa e che attraversa paesaggi carsici veramente meritevoli. La affronto con l’entusiasmo dei primi chilometri nonostante il dislivello e la temperatura in aumento. 

Un cartello posticcio mi avvisa che sono entrato in Slovenia ed un altro mi dirige verso la statale per Rijeka, Croazia. Fiume è la sede del porto più importante dello stato, da qui partono i traghetti per le isole sature di turisti, e questo spiega il caos che trovo nell’attraversare la città. Ora fa veramente caldo, si sfiorano i 40°, ed è un calvario affrontare gli ultimi chilometri di costa fino a Klenovica.

Klenovica-Plitvička Jezera

 

Il forte vento proveniente dal mare non mi ha fatto prendere sonno per tutta la notte e anche le operazioni di smontaggio non sono state delle più semplici. La partenza avviene quindi col corpo che non ha riposato e il morale a terra. Oggi saluterò il mare con la speranza di rivederlo tra due settimane, all’ombra di una bandiera turca. 

Esattamente a metà.

 

Pochi chilometri e passo il 45° parallelo: mi trovo esattamente a metà strada tra l’equatore e il polo nord. Sulla mia cartina le strade sono tutte disegnate con lo stesso colore, ma ciò non significa che debbano avere lo stesso fondo. Arriva infatti a sorpresa un tratto sterrato che senza le  gomme adatte è sempre un rischio da evitare.

Il fondo stradale sconnesso prosegue per diversi chilometri, ma la mia attenzione è rivolta ai cartelli che mi allertano della presenza di mine inesplose. Sempre più frequenti sono anche lapidi, le prime di tante che incontrerò, datate 1992 anno in cui ebbe inizio il conflitto tra Serbia e Croazia. La sensazione di essere in un libro di storia fresco di stampa mi assale per la prima volta, l’eventuale odore di inchiostro è sopraffatto da quello del sangue versato. 

Lo sterrato mi accompagna per qualche chilometro

Accaldato ed impolverato continuo per la mia strada, torna l’asfalto e anche qualche casa, da almeno due ore che non incontro nemmeno una  persona. In serata giungo accaldato ed impolverato ai laghi di Plitvice.

 Plitvička Jezera–kljuc

 
 

Riparto corroborato dalla notte in un letto comodo, l’aria è frizzante e le strade deserte fino al confine bosniaco. Salto la lunga colonna di auto ed entro a Bihac, prima città della Bosnia e prima moschea. Lasciata la cittadina bosniaca la strada sale costante e per diversi chilometri, incontro alcuni ciclisti fermi a bordo strada intenti a dissetarsi: la temperatura è salita e i tratti all’ombra sono pochi. Consolano invece la leggera brezza e i luoghi che attraverso: lunghi rettilinei di asfalto perfetto, prati che non conoscono la siccità, rare auto e ancor più rare costruzioni

Attraversando uno degli sporadici villaggi mi imbatto in un anziano signore che, accompagnato dal nipote, piange nei pressi di un monumento militare. La cosa  che colpisce è la quantità smisurata di stelle rosse a ricordo dei caduti della seconda guerra mondiale. Un pianto che può apparire anacronistico, ma racconta una sofferenza lunga sessant’anni. 

In ricordo dei caduti della seconda guerra mondiale.

Entro a Kljuc a tarda sera, un poliziotto mi indirizza,seccato, verso l’unico B&B del paese. Dopo qualche ora sono seduto nella terrazza di un ristorante a godermi la ricca cucina bosniaca ammirando le montagne circostanti e la vicina moschea. Proprio dai megafoni di questa parte il richiamo del muezzin, anche per oggi il ramadan è finito. Il ristorante si ripopola velocemente e accoglie chi ha saputo aspettare: un rituale a cui assisterò spesso nei prossimi giorni.

Kljuc–Travnik

 

Una colazione bio, a chilometro zero credo sia la cosa migliore prima di una lunga pedalata. Il proprietario del B&B mi spiega che il succo di mela lo produce lui e ovviamente le uova sono del suo pollaio. Non si assume invece la paternità dell’improponibile crema spalmabile di pollo, di tipo industriale, che ho messo sul pane.

Mrkonjic Grad è una piccola cittadina montana che sfioro soltanto, ma ho il tempo per notare e fotografare l’appariscente chiesa ortodossa costruita solo 22 anni fa per volere della comunità islamica locale. Furono proprio i mussulmani di questa città a pretendere che i loro concittadini avessero la possibilità di praticare il loro culto senza essere costretti a lunghe trasferte. Un motivo in più per maledire ancora una volta i manipolatori di menti che hanno voluto questa guerra infame.

L’appariscente chiesa di Mkovic Grad.

 

Quasi all’improvviso appare il tanto sospirato e allo stesso tempo famoso lago di Jaice. Proprio a metà della sponda nord ci sono diciassette piccoli mulini ad acqua che credo siano stati più usurati dai flash che dagli agenti atmosferici.

Proseguo per strade deserte, finalmente pianeggianti, come sempre di un verde disarmante. La statale costeggia il fiume superando rari villaggi che sembrano cartoline alpine. Per spezzare questa piacevole monotonia bisogna affidarsi a qualche apicoltore che vende miele a bordo strada o a magre ed annoiate pecore che tentano di invadere la carreggiata. 

I mulini di Jaice

 

Dopo un ultimo colle, entro a Travnik in buon orario, nemmeno il tempo di orientarmi e vengo avvicinato da un biker locale che, premuroso, mi accompagna all’albergo. Nemir ha 31 anni e quando è iniziata la guerra ne aveva solo undici. Inizialmente non si capacitava del perché all’improvviso non potesse più giocare con gli amici di sempre. Poi iniziò a scarseggiare il cibo, infine quei colpi sordi dalle montagne che interrompevano ogni attività quotidiana. 

 La guerra era diventata routine nell’infanzia di Nemir. Ora e’ un personaggio molto popolare a Travnik, ogni passante ha un cenno o un saluto per lui, e lui a tutti spiega chi sono e dove sono diretto.

Travnik-Sarajevo

 

In albergo, dopo un breve dialogo in inglese sulla miglior strada per Sarajevo, scopro che i miei interlocutori sono di Cuneo. Abbiamo percorso più o meno le stesse strade, avuto le stesse sensazioni e soddisfatto le nostre aspettative mentre pedalavamo in questa bellissima terra. Ora ci aspettano ancora un centinaio di chilometri fino a Sarajevo, partiamo in orari diversi ma lungo la strada ci incontreremo parecchie volte. Alle porte della capitale bosniaca li rivedo per l’ultima volta dalla parte opposta della tangenziale che mi porta all’aeroporto Butmir, loro vanno in città io sono incuriosito dalla visita del museo del tunnel.

L’edifico all’interno del quale fu scavato il tunnel di Sarajevo.

A sud della pista dell’aeroporto, durante l’assedio serbo alla città, fu scavato un tunnel per far giungere gli aiuti umanitari dall’aeroporto alla popolazione assediata. Di quest’opera costruita a mano durante la guerra, sono rimasti solo pochi metri percorribili, conservati all’interno di una casa museo ancora crivellata di colpi. 

Sarajevo non è solo storia degli ultimi 20 anni, Sarajevo è un libro aperto. Combattuta e contesa da diversi imperi, si presenta ora come una macchina del tempo, dove i secoli scorrono ad ogni cambio si strada.

Il quartiere turco con le moschee e le vie strette in ciotolato è ricco di vita e profuma di spezie e kebab. Poco distanti invece, palazzoni di costruzione asburgica se ne stanno ordinati in riva la fiume. Su uno di questi una targa ricorda che da qui Gavrilo Princip sparò all’arciduca d’Austria dando il via alla prima guerra mondiale.

Il quartiere turco della Baščaršija.

 Proseguo incrociando la chiesa ortodossa, prima di addentrarmi in una via affollatissima di giovani e locali modaioli, poco più in là si scorge la cattedrale cattolica che custodisce ai suoi piedi l’ultima rosa di Sarajevo. Le hanno chiamate così perché sono state ridipinte di rosso, ma in realtà si tratta delle buche lasciate dai colpi di mortaio durante l’assedio.

Sarajevo-Scepan Polje

 
 

 Il ritorno nella Bosnia rurale avviene in maniera repentina, Sarajevo è adagiata in una conca lunga circa dieci chilometri dalla quale partono diverse valli alcune delle quali completamente disabitate, ed una di queste che mi porta a Foca, ultima cittadina prima del confine montenegrino.

Appena fuori città riappaiono i cartelli della repubblica Srpska. Alla mia destra scorre il monte Igman, una volta sede di gara delle olimpiadi del ’84 e poi tristemente famoso per aver ospitato le milizie serbe durante la guerra.

Nella valle della Drina in direzione Montenegro

Improvvisamente il fondo stradale peggiora, la strada costeggia la Drina e salendo dolcemente crea uno dei tanti canyon che rendono questa zona nel cuore dei balcani il paradiso del rafting. Il posto di frontiera col Montenegro è solo una formalità burocratica senza impicci, diventa più complicato attraversare il ponte sul fiume: è costruito con assi di legno disposte con poco criterio e più di una volta la ruota anteriore si infila tra esse, meglio scendere per qualche metro.  

Camping presso Scepan Poljie

La zona è satura di campeggi tutti attrezzati con kayak, tute da sub e jeep per la risalita, ma oltre a questi il nulla. Da Foca a Zabliak percorrerò oltre 80 km senza incontrare villaggi e abitazioni di nessun tipo. Questa zona prende il nome di Scepan Polje, 600 mt sul livello del mare, fiumi nascosti in fondo a canyon profondi e ripide montagne tutt’attorno. E’ il 13 agosto e tutto ciò non giustifica il freddo della notte (4 gradi ) e quello della mattina (9 gradi)

Scepan Polje–Zabliac

 
 

Saluto il motociclista belga che ha dormito nella tenda accanto alla mia, le uniche del campeggio, e ben coperto affronto le prime rampe della giornata. Seguono diversi chilometri di pianura in una valle stretta e tortuosa, il percorso passa da una parte all’altra con ponti stretti che paiono paurosamente incastrati tra due pareti di roccia. Una volta sceso di quota le acque del fiume si impossessano della valle e creano un bacino di rara bellezza.

La valle si allarga poco prima del bivio per il Durmitor

 La parete rocciosa che costeggia la strada da diversi chilometri è interrotta dalla bocca di una galleria che pare abbandonata, imboccandola si  inizia la salita al parco del Durmitor. La strada sale inizialmente ripida e tortuosa per almeno dieci chilometri per poi addolcirsi fino ad un piccolo rifugio dove mi fermo per un piccolo rifornimento. La carreggiata si stringe e prosegue con diversi saliscendi attraversa villaggi deserti e cimiteri abbandonati. Sullo sfondo appare già imponente il Durmitor, la montagna che da il nome a questa bellissima località.

In vetta ad una delle salite del parco del Durmitor

 Scollino ai 1800 metri, un pastore mi saluta indifferente durante la breve discesa, il vento si alza ma è favorevole e sembra volermi essere di sostegno nell’affrontare l’ultima salita fino ai 1900 metri: Il punto più alto di giornata. Faccio due parole con un gruppo di ciclisti polacchi, ci scambiamo informazioni utili per il proseguo del nostro viaggio e riprendiamo le nostre vie. Ora solo discesa, ripida e stretta, resa ancora più complicata dai numerosi bovini che, incuranti, pascolano liberamente sull’asfalto.

Zabljak è un piccolo borgo montano dove ha sede il parco naturale, sembra un piccolo paese dolomitico: montagne, pinete ordinate, un ufficio turistico e una piccola stazione di autobus. Per dormire due alberghi e parecchi affittacamere. Incontro casualmente la proprietaria di uno di questi, è gentile e decisa allo stesso tempo, mi offre una camera in casa sua con connessione wi-fi e tanto basta per convincermi.

Zabljak–Andrejevica

 

Sarà stato il paesaggio mozzafiato, o la facilità con cui giravano le gambe, ma senza capire come, ho sbagliato strada e ho allungato la già difficile giornata di 25 km. Cartina alla mano scelgo il percorso alternativo da seguire, sempre ben fornito di salite, mucche pascolanti in carreggiata e carri agricoli.

I villaggi scarseggiano ed hanno nomi impronunciabili, il traffico da queste parti non sanno nemmeno cosa sia, si vedono auto solo nei cortili e l’unico rumore è quello dei miei copertoni che scorrono sul ruvido asfalto. Il dislivello da affrontare è notevole, e solo ora realizzo che il nome Montenegro spiega appieno le caratteristiche morfologiche del paese. 

Ponti a congiungere le strette pareti della valle

 

Discesa ripida, due tornanti e la valle si apre improvvisamente, cumulonembi sulle vette, il verde dei boschi quasi fosforescente e terrazzamenti costruiti in posti improponibili, fanno sembrare questo posto un paesaggio andino. A spezzare questa illusione scorgo in lontananza un viadotto che taglia in due la montagna e finalmente due costruzioni che sembrano dei bar. Fa caldo e sono senz’acqua da parecchi chilometri e il bar tanto agognato appare e scompare a seconda dell’ esposizione della strada, come un miraggio.

Bevo avidamente una bevanda dolciastra dal nome e dal gusto misteriosi, l’anziano gestore mi parla in tedesco, non capisco le parole ma quando si presenta con una canna da cui sgorga acqua freschissima rispondo anche io in tedesco “ ja ja ja danke schon”. Abbassare la temperatura del corpo in queste circostanze aiuta anche il morale. Si risale ancora per il secondo colle breve, ma duro e trafficato: per pochi chilometri percorro la strada che arriva da Podgorica e anche il traffico pesante torna a farsi sentire.

Discesa nel parco del Durmitor

 

Kolasin è una piccola cittadina, vivace e ordinata che non sembra curarsi del mio passaggio, un enorme piazza lastricata di traversine della ferrovia satura l’aria di un odore tremendo di catrame sicuramente non molto salubre. Cerco indicazioni per Andrejevica, ma ricevo solo offerte di camere per la notte. Finalmente dopo una strettoia trovo un cartello datato che mi indica la giusta via. 

Una lunga fila di abitazioni sulla mia destra costeggia la strada in questa stretta valle. In ogni cortile i bambini interrompono i loro giochi al mio passaggio, stupiti forse per la bici o forse di vedere uno straniero in questa remota località dell’entroterra montenegrino. Il fiume alla mia sinistra ha una portata limitata e acque limpidissime, così come il paesaggio che mi circonda sembra essere immacolato e preservato da ogni forma di inquinamento.

Andrejevica–Peje (Pec)

 

Ero  l’unico cliente di questo spento ma gigantesco hotel, tetro da sembrare quello di Shining, ma posto in una posizione talmente centrale da non spaventare nessuno.

Il ragazzo alla reception ieri sera si è prodigato in mille modi, telefonando a polizia ed enti locali perché secondo lui la strada che intendevo fare per entrare in Kosovo – il Kulina Pass– non è percorribile.

In realtà la questione è puramente burocratica, la strada c’è ed è asfaltata, ma non c’è dogana quindi niente timbro e niente visto, anche nel caso decidessi di prendere questa via entrerei in Kosovo da clandestino e il problema si manifesterebbe in uscita dal paese. L’appuntamento col Kulina pass è comunque solo rimandato.

 La soluzione è un cambio di percorso che rende più impegnativa la giornata, però mi permette di entrare in Kosovo senza problemi. Ritorno in parte sulle strade percorse ieri e arrivo a Berane. Vengo accolto da un gigantesco cartello col nome della cittadina scritto in cirillico, enormi cumuli di rifiuti a bordo strada ed altrettanti cumuli di legna da ardere nei cortili degli imponenti condomini della periferia, ricordo evidente degli anni del comunismo in ex-Jugoslavia.

La “nuova” strada per il Kosovo

Percorro altra strada per raggiungere Rozaje. Si ha come l’impressione di trovarsi in due posti diversi nello stesso momento. Il paesaggio è tipicamente montano, ma al posto dei campanili delle chiese si scorgono solo minareti, non c’è odore di strudel o wurstel, ma quello speziato del kebab o quello dolce dell’agnello alla griglia. Niente jodler, ma musiche di chiara origine turca, qualche impianto di risalita e donne col capo coperto. Appare a prima vista come un forte contrasto, qualcosa di anormale e stridente. Si tratta invece si una splendida realtà, differente da ogni stereotipo imposto e, proprio per questo, di una bellezza disarmante.

Al bivio giro a destra verso Peje, Kosovo, l’alternativa era di proseguire diritto per Mitrovica, altra cittadina kosovara che ancora non ha ricominciato a vivere in serenità e soffre di divisioni interne le quali mietono vittime tutt’oggi. Manca un chilometro al confine, due montenegrini fermi a bordo strada mi offrono acqua e cioccolato, sono i primi che non mi danno del pazzo pur sapendo che sono diretto in Kosovo e questo mi conforta.

Il secolare ponte turco di Prizren

 

Scollino a quota 1800 mentre Peje, dove mi attende l’amico Dashi, è molto più in basso. Mi aspetta una lunga discesa dalla quale posso vedere tutto il Kosovo: un’ immensa pianura circondata da montagne che ne segnano il confine.

Con uno stupore simile a quello dei doganieri Kosovari quando mi hanno controllato il passaporto, il mio primo incontro nella terra di Rugova, è con un cicloturista tedesco, giovane e ben attrezzato, sta ritornando a Friburgo dopo aver girato per buona parte dei balcani.

Credo che Peje giustifichi, in parte, tutti i pregiudizi che la gente ha sul Kosovo: strade malconce, automobilisti indisciplinati e ragazzini eccessivamente interessati al mio bagaglio. Prizren è invece completamente differente. Ci arrivo dopo un breve viaggio in macchina con Dashi, e ho modo di visitarla in lungo e in largo sia di giorno sia di sera. Con clima agostano e l’aria vacanziera sembra di essere in una qualsiasi località di villeggiatura della costiera romagnola. Sono tutti Kosovari che rientrano a casa da mezza Europa per godersi per poco tempo la loro città.

Prizren–Skopje

 

Tappa corta, partenza posticipata. Anche perché ieri sera s’è fatto tardi e devo ancora fare qualche foto a Prizren. La piazza principale affacciata sul fiume e sul ponte ottomano rappresenta per me un po’ l’essenza di questo viaggio, in poche centinaia di metri convivono e quasi confinano la chiesa cattolica, quella ortodossa e la moschea per il culto mussulmano. Lo hanno fatto per secoli e la speranza è che lo continuino a fare in seguito.

Prima di raggiunger Skopje, devo affrontare ancora una salita lunga e calda. Mi dicono che attraverserò alcuni villaggi serbi lungo la strada, la cosa non dovrebbe interessarmi visto che sono straniero, mentre per i kosovari potrebbe esserci qualche rischio. 

Attenzione mezzi bellici. In direzione Macedonia

KFOR è la sigla sotto la quale si riconoscono i militari Nato in servizio in Kosovo. Alcuni di questi tra cui gli italiani, sono di stanza a Peje, gli altri sparsi nei punti caldi del paese. Nel sud del paese la loro presenza passa quasi inosservata, forse per discrezione o forse per mancanza di effettive esigenze. Gli unici soldati Nato che incontro sono quelli che coadiuvano il controllo alla frontiera con la Macedonia.

Il primo cartello incontrato in terra macedone è un bel divieto per le biciclette. Si fa presto a mettere il divieto, ma se non si offrono alternative, si fa altrettanto presto  a non rispettarlo. Quindi pedalo da fuori legge fin quasi alle porte di Skopje. Capitale multiculturale, Skopje è molto trafficata e complicata per il ciclista. L’albergo è in posizione centralissima e la bici dorme in camera con me. Dalla finestra posso della vista sulla piazza centrale della città con tutta la gente a passeggio, l’enorme statua equestre di Alessandro Magno e la meravigliosa fontana. Sarà uno spettacolo di breve durata.

Skopje–Kyundestyl  

 

Notte in bianco e senza cena. Non è un castigo auto inflitto, ma una conseguenza della congestione di ieri sera causata probabilmente da una bibita gelata e dell’aria condizionata. Difficile capire se sono più in basso le mie forze o il mio morale, ma provo a ripartire. Grandi alternative non ce ne sono, pullman e treni non consentono trasferimenti a breve termine quindi provo, piano piano, a riprendere il mio viaggio.

Skopjie

Con qualche mezzo di fortuna e un po’ di sofferenza passo il confine e giungo a Kyundestyl. La dea bendata mi fa incontrare una loquace pianista canadese di origini bulgare. Gentilissima si prodiga per me alla ricerca di un albergo, controllare la stanza che mi viene assegnata ed il relativo costo. Dopo queste cortesie telefona personalmente alla stazione e mi cerca un treno per il giorno dopo, ovviamente mi ha già consigliato un buon ristorante. E pensare che io le avevo chiesto solo dove trovare l’ufficio turistico!

Kyundestyl-Plovdiv

 

La situazione non volge al meglio nemmeno dopo la prima notte in terra bulgara e mi trovo costretto a salire sul treno che con diversi cambi e pochi euro mi porterà a Plovdiv.

L’efficienza delle ferrovie bulgare è quasi sorprendente, treni quasi puntuali, puliti e con aria condizionata perfettamente funzionante. La stazione di Sofia al confronto sembra invece essere rimasta agli anni sessanta, con grezze decorazioni del periodo socialista e orari scritti su tabelloni non perfettamente funzionanti.

Le rovine romane nel centro di Plovdiv.

Plovdiv viene descritta come la Firenze di Bulgaria, il paragone è ovviamente esagerato, ma la città si dimostra una piacevole sorpresa. Nel centro città moderno e lussuoso appare improvvisamente un anfiteatro romano. Tra una boutique e un ristorante, scendendo qualche scalino si fa un improvviso balzo indietro di 2000 anni. Percorrendo un piccolo tunnel sotterraneo si ha poi la possibilità di risalire e spuntare proprio di fronte alla moschea che, circondata da un giardino curato e illuminata dalla luce del tramonto, lascia parecchi turisti a bocca aperta.

Plovdiv–Edirne 

 

Ritorno a pedalare dopo quasi due giorni di riposo e sofferenza, le prime sensazioni sono buone la strada invece non offre nessuno spunto degno di nota. Lunghi rettilinei, traffico moderato e poche abitazioni. Campi coltivati e continui cantieri e nulla di più. A spezzare la monotonia della giornata il cartello verde di inizio autostrada che mi trovo di fronte come unica alternativa.

Autostrada bulgara

 

Rifletto pochi istanti sul da farsi ed imbocco con un minimo di timore l’autostrada. Secondo la cartina dovrebbero essere solo venti chilometri, ma li percorro con l’angoscia di incontrare qualche integerrimo poliziotto bulgaro. Fortunatamente giungo alla dogana turca senza problemi e posso finalmente attraversare il mio ultimo confine

E’ il 19 di agosto ultimo giorno di Ramadan e io lo passerò ad Edirne, l’antica Adrianopoli. Il modesto albergo in pieno centro mi consente di visitare e godermi appieno questa meravigliosa città. Due splendide moschee, un centro ricco di viuzze strette sature di profumi arabeggianti: polpette alla griglia e fegato stufato su tutti.

Il viale centrale è addobbato a festa e la gente è tutta riversata in strada ed affolla i numerosi locali. Festeggio anch’io a mio modo, seduto nella veranda di una pasticceria gustandomi dolci turchi a base di miele e frutta secca, contando i chilometri rimasti per raggiungere Istanbul.

La moschea di Edirne

Edirne-Siliviri

 

Certe cartine sono fuorvianti, presentano i percorsi in modo incompleto o del tutto errato. Immaginavo una giornata lunga e faticosa ma completamente pianeggiante, noiosa, ma sicuramente non così snervante ed impegnativa. Dopo un breve tratto di pianura inizia un lungo saliscendi con vento laterale che spegnerebbe l’entusiasmo di qualsiasi ciclista.

 Purtroppo mi aspettano parecchie ore in queste condizioni, con la temperatura che sale e i chilometri che non passano. Le cittadine sul mio percorso sono sfiorate solo marginalmente ed in questo modo il paesaggio non cambia mai: girasoli e meloni per tutta la giornata. A spezzare la monotonia ci pensa una foratura nei pressi di Corlu, ma ne avrei fatto volentieri a meno. 

Alterno soste per l’acqua nelle aeree di servizio a soste per l’anguria nei molteplici carretti lungo la strada, non fresca ovviamente, ma aiuta a reintegrare e non sa di plastica come l’acqua delle borracce. Finalmente in lontananza l’uniformità del paesaggio viene interrotta da una riga blu all’orizzonte. Dopo l’Adriatico lasciato alle spalle quasi due settimane fa, il Mar di Marmara preannuncia la fine del viaggio.

Girasoli e il mar di Marmara

“Siliviri 15“ recita il cartello. Sembrano pochi, un’inezia dopo tanta strada, purtroppo saranno i più sofferti e pericolosi, preludio di quello che mi aspetta da qui ad Istanbul. Una tangenziale stretta e trafficatissima corre parallela al mare con continui saliscendi spazzati da un forte vento contrario.

 Il sistema nervoso è messo a dura prova da questi ultimi sforzi, fino allo svincolo per Siliviri. Poche centinaia di metri bastano per cambiare radicalmente situazione ed umore. Stradine strette, piene di negozi, gente a passeggio e lungo mare tipicamente agostano con bancarelle di ogni tipo e profumo di calamari fritti nell’aria.

Siliviri–Istanbul

 

Atmosfera da ultimo giorno di scuola, poca strada da percorrere e pure poca voglia di pedalare. Mancano 40 chilometri per giungere al centro di Istanbul, da qualche chilometro sto già pedalando nello sconfinato interland della città.

Aya Sofia, la mia bicicletta e la bandiera Turca

L’ingresso nella metropoli turca è disarmante: cerco di orientami, e di capire come muovermi, ma è veramente folle pensare di pedalare ad Istanbul. Seguendo le rotaie del tram e qualche sporadica indicazione raggiungo il centro e la fine delle mie fatiche. Seduto su una panchina e pranzando con una pannocchia, guardo ammirato la maestosità Aya Sofia, la piazza brulicante di turisti e di fronte a me la mia bicicletta appoggiata ad un palo. Proprio in quel momento passa accanto a me un giovane con una grande bandiera turca sulle spalle: sarà la foto finale del mio viaggio.

Hotel Constantin Istanbul

 

Dopo tre giorni da turista mangiatore di kebab ad Istanbul, domani prenderò un volo diretto che in poco più di due ore mi riporterà a casa dopo quasi tre settimane a spasso con la mia bicicletta. E’ tempo di pensieri, di nuovi progetti ed anche di domande. Sono partito con tanta curiosità, forse morbosa, di voler vedere con i miei occhi quello che in parte mi è stato mostrato dai telegiornali di vent’anni fa. 

Nei pressi di Travnik

Ho pedalato con la speranza di conoscere nuove realtà e approfondire conoscenze limitate alle mie letture. Ho proseguito nonostante le difficoltà, per raccogliere ed assaporare ogni istante di questo mondo che mi è sempre, erroneamente, sembrato tanto lontano. Sono partito, nonostante lo scetticismo di molti e gli sciocchi timori di altri mi invitassero alla ricerca di una meta meno alternativa.

 Ho conosciuto persone e luoghi che rimarranno sempre nei miei ricordi più nitidi di questo viaggio, così come i fori dei proiettili nei muri delle case, il profumo di cevapi e i richiami dei Muezzin. Non nascondo quindi il desiderio, seppur precoce, di ritornare in queste terre meravigliose, ricche di storia, splendide da visitare e alla portata di tutte le tasche, ma non, aimè, di tutte le teste. 

Cevapi e cipolle

Il desiderio di rivivere questi giorni e rivedere questi posti è già forte, alcune località rese famose dal recente conflitto non le ho potute visitare, altre meritavano più tempo. Durante le ultime pedalate, quindi, già pensavo a come ritornare, a cosa vedere e quali paesi attraversare, nonostante fossi ubriaco di chilometri e sazio di nuove visioni; ma è un po’ il difetto e l’illusione che crea ogni viaggio.

Restano ancora le domande, ma sono sempre le stesse che ogni persona razionale si fa ogni volta che si trova direttamente o indirettamente di fronte ad una guerra, a quello che ne resta o peggio ancora a quello che non lascia. E le risposte, anche loro non cambiano, così come l’uomo che non ha imparato a mutare i propri comportamenti e continua ad annientarsi, stupido ed incosciente.

Bergamo, qualche giorno dopo. 

 

Il pensiero finale è per Asim, che ha terminato il suo viaggio appena dopo il mio ritorno a casa. Mentre gli parlavo entusiasta della sua terra e della sua gente ho letto nei suoi occhi orgoglio e soddisfazione. Ho ricevuto grande stima da questa persona e affetto da tutta la sua famiglia, senza fare altro che essere superiore ai luoghi comuni e ai pregiudizi di molti. Faleminderit